Poco importa che crediamo o meno di trovarci in una pandemia (del che, sia consentito – e mi assumo la piena responsabilità di quello che dico -, si potrebbe fondatamente dubitare, se è vero che basta consultare un qualsiasi sito medico ufficiale, per verificare che la comune influenza o la comune polmonite provocano ogni anno più o meno 15.000 morti, più di quanti ne abbia fatto fino ad ora il Covid19, senza che nessuno si scomponga), l’unica cosa che conta è che ci crede il Governo (e il Parlamento che dovrebbe controllarlo), che, in data 17 marzo 2020, ha emesso il decreto n. 18, denominato con una certa enfasi “cura Italia”, anche se al momento ha più o meno l’aspetto di un’aspirina.

Si tratta di un provvedimento “omnibus”, che contiene svariate disposizioni, grosso modo sussumibili in due filoni: da un lato quelle relative alle misure di contenimento del contagio (c.d. lockdown); dall’altro quelle relative alle misure di sostegno per le categorie economiche in difficoltà.

E’ alle prime che si intendono dedicare alcune brevi riflessioni, in quanto il lockdown non poteva non riguardare anche gli uffici giudiziari, ove notoriamente si ammassano ogni mattina giudici e cancellieri, pubblici ministeri, avvocati e ausiliari di ogni sorta, polizia giudiziaria, polizia penitenziaria e ufficiali giudiziari, oltre a parti, imputati e, last but not least, al pubblico (eh sì, il pubblico, perché le udienze dibattimentali penali sono pubbliche e anche quelle civili in cui si discute la causa, non certo per soddisfare la curiosità popolare – per carità, ci sarà anche quella -, bensì quale irrinunciabile garanzia di trasparenza nell’amministrazione della giustizia, che cede il passo solo di fronte all’esigenza di tutelare determinate categorie di soggetti c.d. deboli o vulnerabili, ad es. minori, vittime di reati sessuali, ecc.).

Il decreto 18/2020 dedica alla giurisdizione ordinaria l’art. 83, che si struttura in diversi commi, prevedendo innanzitutto la...

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