(TAR Calabria, Sezione Reggio Calabria 21 aprile 2017 n. 371 e Corte di Cassazione sez. I^ n. 9684 del 14 aprile 2017).
Due sentenze pubblicate a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, senza alcun collegamento tra loro ed in contesti giurisdizionali diversi, si pongono alla nostra attenzione in quanto ribadiscono l’essenzialità di due caratteri, o requisiti, che la figura del consulente tecnico, ma nondimeno anche il perito estimatore, devono possedere.
Il Tribunale Amministrativo (TAR Calabria, sez. Reggio Calabria, sentenza 21 aprile 2017 n. 371) a proposito di una vicenda di occupazione senza titolo da parte della P.A. (un Comune) di un immobile, ha rimarcato che il risarcimento ovvero l’indennizzo da corrispondere, a seconda di come l’Amministrazione intenderà procedere, deve essere stimato da un perito “indipendente”, dunque un soggetto che non abbia rapporti con le parti e che si ponga pertanto in una situazione di terzietà rispetto ad esse.
La Corte di Cassazione (Sezione I^, sentenza 14 aprile 2017 n. 9684) ha invece, per parte sua, sottolineato l’importanza che il giudizio tecnico di valutazione sia fondato sul richiamo esplicito delle fonti da cui sono state attinte le informazioni che hanno contribuito ad elaborare la valutazione finale, specie (possiamo aggiungere, per enfatizzare il concetto) nel caso in cui il giudice accolga le conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, non essendo egli tenuto per questo solo fatto a confutare dettagliatamente le contrarie argomentazioni delle parti.
Lo stesso giudice ha comunque il dovere di indicare i dati obiettivi sui quali ha ritenuto di fondare la propria valutazione, al fine di consentire un controllo sulla congruità della motivazione. Il che tradotto vuol dire che il giudice può affidarsi al giudizio del proprio consulente, ma deve trattarsi di un giudizio affidabile e competente, che spieghi il percorso logico seguito dal consulente e renda perciò manifeste le conclusioni a cui è pervenuto, in modo che esse siano verificabili dal giudice, il quale a sua volta le recepirà in sentenza e e ne darà ragione nella motivazione della medesima.
Non basta pertanto essere consulenti del giudice per poter dire o fare quel che si vuole: anzi, proprio per le ragioni appena esposte è del tutto ragionevole pretendere dal consulente d’ufficio una preparazione “a tutto tondo” (dalle pieghe della motivazione emerge che il consulente tecnico non aveva mancato in quel caso di di richiamare “l’esperienza personale del sottoscritto”, oltre che “opportuni accertamenti effettuati presso agenzie operanti nella zona” ed ancora le “verifiche operate su autorevoli pubblicazioni”).
Altrettanto degna di nota è l’affermazione (della Corte) circa il potere in capo al consulente di attingere, anche al di fuori delle carte processuali, notizie e dati concernenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamento, quando ciò appaia necessario per espletare convenientemente il compito affidatogli.
Il menzionato potere di acquisizione d’ufficio da parte del consulente risulta circoscritto a quanto prescritto dall’art. 194 cod. proc. civ., nel senso che il c.t.u. “può essere autorizzato a domandare chiarimenti alle parti, ad assumere informazioni da terzi e a eseguire piante, calchi, rilievi”. La giurisprudenza di legittimità, dunque della stessa Corte di Cassazione, ha tradotto concretamente la previsione della norma nel senso di limitarla alla possibilità di acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene non risultante da documenti non prodotti dalle parti, semprechè si tratti di fatti accessori rientranti nell’ambito strettamente tecnico della consulenza.
Cosa rientri nell’accessorietà non è agevole da definire; nel senso che non sono tali i fatti e le situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbono necessariamente essere provati dalle stesse. In un caso specifico era stata ritenuta ammissibile l’acquisizione d’ufficio, da parte del consulente nominato in un giudizio di divisione, della documentazione relativa alla certificazione catastale ed alla regolarità urbanistica dell’immobile da dividere.
Dunque il consulente non può accettare documenti brevi manu dagli avvocati o dalle parti, neppure con l’unanime consenso di tutte le parti, anzi secondo talune interpretazioni maggiormente rigoriste nella lettura delle preclusioni del nostro sistema processuale, neppure con l’assenso del giudice, che ad esse dovrebbe anch’egli sottostare.
L’argomento meriterebbe ben altro approfondimento, tuttavia mi pare utile accendere una spia di attenzione per coloro che ricevono incarichi di consulenza dal Tribunale, per non cadere nella suggestione per cui l’investitura ricevuta attribuisca all’ausiliario del giudice una pienezza di poteri sulle parti e nella conduzione dell’incarico, laddove invece non è così. Un discorso a parte andrebbe fatto invece per le stime nell’ambito delle esecuzioni immobiliari, per le quali occorre fare riferimento alla previsione dell’art. 568 cod. proc. civ., che fissando i contenuti della relazione consente, anzi presuppone, che al perito stimatore siano attribuiti i poteri d’indagine e di verifica che gli occorrono per l’assolvimento dell’incarico.
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