Chi inquina paga. Ma quanto? Un importo che dev’essere commisurato non al reddito del soggetto passivo ovvero dell’attività svolta e tassata, bensì all’entità del servizio reso. Lo ha ribadito recentemente il TAR del Lazio (Sez. Seconda bis, sentenza 11052/2016) confermando, in linea con altra giurisprudenza amministrativa richiamata, che la TARI è una tassa, o meglio un tributo le cui tariffe, che sono e rimangono assolutamente discrezionali, devono però essere commisurate ad una dettagliata valutazione delle singole situazioni, mediante una accurata istruttoria volta ad accertare la produttività quantitativa e qualitativa dei rifiuti da parte delle categorie e/o sottocategorie di attività singolarmente individuate, fissando “coefficienti” di determinazione applicabili ad ognuna. Nel caso specifico il Comune se l’era sbrigata in fretta, andando ad includere in un’unica categoria le aree adibite al rimessaggio, le aree aperte di attività produttive e gli arenili attrezzati. L’applicazione della medesima tariffa è stata considerata dal TAR illogica ed immotivata, sottolineando il fatto che le diverse peculiarità delle singole attività si prestano a produrre quantitativi di rifiuti differenti, e nel caso specifico delle aree adibite al rimessaggio meno ingenti. Dunque i Comuni devono prestare attenzione nella fase della classificazione, il giudice amministrativo ovviamente non entra nel merito della misura della tariffa, ma si preoccupa del rispetto di un principio di carattere generale e di nota impronta comunitaria (il chi inquina paga), che detta un criterio implicito di proporzionalità, il quale deve però essere modulato anche sull’esigenza di copertura dei costi del servizio, che rappresenta a sua volta un principio (quello di pareggio dei conti) altrettanto ineludibile.

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